Io sono una persona estremamente analitica, in ogni campo: sono riuscito a definire quasi tutto attraverso equazioni, o disequazioni e, con soddisfazione, devo proprio riconoscere di avere spesso fatto un buon lavoro. Ma pur considerando ogni singolo elemento, ancora i rapporti umani non sono riuscito a sintetizzarli.
Osservo le persone e le dinamiche che si creano fra loro in un misto di curiosità e terrore: curiosità perché alcune scene risultano davvero interessanti – e ci potrei scrivere libri interi, su ciò che in 37 anni ho osservato del genere umano – ma terrore perché mi accorgo che, nonostante tutti i miei sforzi, c’è sempre quel pezzetto che mi sfugge, che lascia il mosaico orfano di quell’unico tassello che ne mina l’integrità.
Uno degli elementi su cui più si è concentrata la mia osservazione è quello dei litigi.
Capita spesso che vi siano scontri, fra le persone: il lato irrazionale della loro intelligenza prende il sopravvento, e si dicono cose forti, difficili da digerire. E questo posso anche capirlo.
Ciò che non posso accettare è la facilità con la quale molte persone inviino, postume, le proprie scuse.
Ho preso in valutazione alcune possibili spiegazioni:
- Le persone vogliono avere la coscienza pulita, e le scuse sono il Vetril dell’anima
- Le persone intendono davvero scusarsi e davvero si rammaricano di quanto hanno detto, ma non ne colgono l’essenza fino in fondo
- Le persone prendono alla leggera le parole, e pensano che tutti facciano la stessa cosa.
Ora. Pur non eliminando l’àncora di salvezza rappresentata dal pensiero comune secondo il quale la rabbia fa dire cose che non si pensano – anche se, a dire la verità, sono portato a pensare che sia più realistico il fatto che, durante un eccesso di rabbia, si sia più propensi a dire la verità, piuttosto che una menzogna – , ciò che mi viene sempre in mente è una metafora, che recita più o meno così: “Le persone sono come piatti di porcellana: una volta rotti, puoi tentare di ripararli, ma non sarà mai più la stessa cosa”.
Le cicatrici sui piatti si vedono, ma non si vedono nei sentimenti delle persone. Ed alcune persone più di altre sono sensibili a queste cicatrici, inconsciamente portate a pensare che, questa frattura, accadrà di nuovo.
E così, per molti, si genera solitudine. Si tengono insieme i pezzi con un po’ di colla, e si va avanti, ma con la paura sempre in aumento.
Il timore di un piatto di porcellana, dopo la prima frattura, è più o meno una funzione entropica: aumenta sempre. Seppur maneggiato con estrema delicatezza, il piatto si irrigidirà ad ogni movimento, pronto a incassare il colpo di una nuova sbeccata. E vivere questa paura è qualcosa di estremamente doloroso, soprattutto per quella categoria di persone che inferisce regole ferree ed è portata a pensare che accadrà ancora, ed ancora, ed ancora. E si può scegliere la solitudine, piuttosto che il rischio, perché il dolore di una frattura dell’anima è qualcosa di tremendo.
Le persone sono come piatti di porcellana: una volta rotti, puoi tentare di ripararli, ma non sarà mai più la stessa cosa. Per questo, prima di parlare, si dovrebbe contare fino a quando si capisce che, scanso danni irreparabili, è meglio stare zitti.
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