Gli studenti non sono numeri. E i docenti non sono calcolatrici.
Sono quelli che arrivi in classe, e ti dicono: “Prof, come piove! Tutti corrono con le auto…”. E tu usi quella occasione per parlare degli algoritmi del commesso viaggiatore, e dei protocolli di ottimizzazione. E alla fine, li vedi che pensano. Perché sì, gli studenti pensano… (anche se poi si alza quello di turno e ti dice: possibile che lei debba sempre complicare tutto? Eh vabbè, me la sono cercata…).
Gli studenti sono quelli che ti vedono all’intervallo e ti dicono “Prof, come sta? Ha fatto la merenda?”. E sorridi. La merenda…quanti ricordi… (e poi tiri fuori il succo e il kit kat, come il figlio della tua collega, perché il caffè, tu, non lo bevi…).
Gli studenti sono quelli che fanno morire il gatto per tre o quattro volte, prima di portarti la relazione. E quando te la portano, te la consegnano senza il nome, e ti dicono che se va bene è la loro, se non va bene, è di qualcun altro.
Gli studenti sono quelli che fai il compito in classe, e ti dicono: “E’ facile, prof?” e tu rispondi “Ma sì, dai…” e loro ribattono: “Eh per forza, lei è il Prof, per lei è facile…” e tu chiedi che cosa te lo hanno domandato a fare, allora, e uno dice “Beh, ha ragione anche lei”. Eh.
Gli studenti sono quelli che ti alzi la mattina, guardi l’orologio che è così presto che è ancora il giorno prima, e ancora non hai acceso tutte le parti del cervello ma già pensi alle domande che ti faranno, e se ne uscirai vivo (perché, in questi casi, la pianificazione è tutto…).
Gli studenti sono quelli che se li tratti bene e li rispetti, anche se una volta si meritano un 5 non si lamentano, e vengono alla cattedra e ti dicono “Prof, mi dispiace, sono molto dispiaciuto. Mi impegnerò di più, mi scusi”. E tu li guardi e gli dici: a mazzate, ti prenderei… (e nessuno ti denuncia, perché sa che sei pacifista, ed è solo un modo di dire… giusto?).
Gli studenti sono quelli che stai camminando in città, e senti “PROOOOOFFFFFF” e vedi un gruppo che ti saluta, e così ricambi il saluto, e ti senti dire: “Bella la vita, sempre in vacanza eh…”. Mannaggia, lunedì vi interrogo tutti quanti.
Gli studenti sono quelli che vengono da te e ogni tanto una lacrima gli scappa, che sono ragazzi, mica robot. E tu gli potresti dire: “non piangere che sei grande”, ma poi ti ricordi che ogni tanto piangi anche tu, e allora gli rispondi “forza, io credo in te”. E bon, sinceramente, che altro avrei potuto dire?
Gli studenti sono quelli che ti portano da Monaco di Baviera una cartolina con l’elenco dei monumenti, e un’altra cartolina con una biondona che beve birra, e ti dicono “Scelga lei”. Azz.
Gli studenti sono quelli che ti chiedono come sta la Fulvia – l’automobile a metano, che costa meno – e tu gli dici “Dai, sta abbastanza bene”. Poi gli dici che sei tu ad essere un po’ acciaccato, e ti dicono: Eh beh, prof, è l’età… Mannaggia, vi interrogo lunedì davvero.
Gli studenti sono quelli che ti dicono: Non c’è Cordusio, prof. E tu apri il registro, e cerchi Cordusio, che con 7 classi col cavolo che ti ricordi tutti i cognomi, e vedi che Cordusio, in elenco, non c’è proprio. E dici: “Aò, ma che stamo a fa’ ?” e loro “Prof, non si arrabbi: tecnicamente, come dice lei, la nostra affermazione è corretta…”. Mariasantissima.
E potrei continuare con l’elenco all’infinito.
Gli studenti non sono numeri. Non possiamo ingabbiarli in numeri. Abbiamo il dovere di dare loro indicazioni circa quanto fruttuoso o meno sia il loro metodo di lavoro, ma non abbiamo il diritto di dire loro ciò che possono o non possono fare con un 3 o un 4 buttato lì con noncuranza.
Non abbiamo il diritto di guidare le loro scelte, semmai di aprire la mente a prendere in considerazione più opzioni possibile, che, secondo la legge dei grandi numeri, prima o poi la soluzione la si trova.
E non abbiamo il diritto di limitare i loro orizzonti, di costruire muri davanti ai loro occhi. Menti libere, ci servono. Menti libere.
L’unica possibilità che abbiamo è di dimostrare loro che questa società non è tutta uguale. Che c’è chi crede che si possa fare diversamente. Che c’è chi non si arrende. Che c’è chi non odia, ma ama, nonostante tutto. Perché alla fine se la società non salta in aria, vuol dire che c’è sì chi odia e si arrende, ma che chi ama e persevera è in numero maggiore. Una serie divergente, insomma. E a me, tutto ciò che diverge, mi ha sempre entusiasmato.
Ci abbiamo messo 50 anni a arrivare dove siamo. Non possiamo tornare indietro. Dài, siamo seri. Siamo seri.
E come ogni anno, non so cosa sarà di me l’anno che verrà. Non so dove andrò a finire, chi incontrerò, quali esperienze vivrò. Non so se lavorerò (anche se non voglio pensare all’opzione disoccupato, che mi terrorizza…). E, in fondo in fondo, in modo un poco egoista, vorrei che chi ci governa provasse questo sentimento di smarrimento misto a tristezza misto a speranza misto a malinconia misto a. Misto a. Che a volte non ti fa dormire. Forse, e dico forse, prenderebbe in maggiore considerazione l’importanza di un lavoro come il mio. Ma questa è un’altra storia.
Gli studenti non sono numeri. Sono la nostra speranza. Ci abbiamo messo 50 anni ad arrivare dove siamo. Non possiamo tornare indietro. Dài, siamo seri. Siamo seri. E questo è quanto.
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